Biografia

Permettete che mi presenti: mi chiamo Stefano Bossa, sono nato a Roma e vivo a Latina, sono un Autore e Compositore. Non prendo troppo sul serio l’astrologia, anzi, ma mi piace pensare che in me convivano due anime distinte e separate, questo perché sono un sagittario, mezzo uomo e mezzo animale, con ascendente in gemelli e quindi, forse, il massimo della contraddizione!

La parte di me di cui, però, desidero parlarvi non è quella razionale ed anche un po’ rompiballe che a volte cerca di prendere il sopravvento, bensì quella più istintiva, quella profondamente sentimentale e romantica, che poi è quella che ha determinato tutte le scelte importanti della mia vita: gli studi, il tipo di vita, gli affetti… e che domina incontrastata tutto il mio mondo creativo ed artistico.

Sono passati tanti anni dalla mia giovinezza, ma questo non mi impedisce di ricordarmi perfettamente che, già da piccolino,  il mio trasporto e la mia propensione verso la musica, verso il ritmo e verso le parole, in prosa e in poesia, dominavano la mia scena vitale. Uno scrosciare di pioggia, od una tettoia che sbatteva con ritmo casuale, mi ispiravano la creatività, così come una nota emessa dal naso, per caso, e che faceva risuonare tutta una parete della mia vecchia casa romana di via Principe Amedeo.

 i “Playing”, il mio primo gruppo

Fu mio padre ad accorgersi per primo che ero dotato di orecchio musicale. Lui suonava il piano senza aver mai conosciuto una nota. Rammento che mi prendeva da parte, poi emetteva un bel “aaaahh” e mi chiedeva di ripetere la stessa identica nota in un gioco che mi piaceva fare perché sapevo di non sbagliare e perché capivo e vedevo che lui era contento di me. Fu lui a volere che io studiassi pianoforte e devo a lui, più che alla mia non straripante “voglia di applicarmi”, come lui amava dire, il merito di avere acquisito una tecnica capace di far sì che potessi esprimermi musicalmente come oggi amo e posso fare. Ricordo, non senza ancora oggi una punta di sano terrore, quando mi diceva che voleva ascoltare come avessi studiato e cosa avessi imparato, e pretendeva che suonassi senza il minimo errore “Foglie d’oro”, oppure “All’ombra delle rose” o magari la terribile ”Martita” e poi, sempre più avanti negli studi, “Per Elisa”, e poi l’”Adagio al Chiaro di Luna”, passando per la “Patetica” ed il “Sogno d’Amore” fino al brano che, credo, lui amasse di più: il “Traumerei” di Schumann!!!

Quel timore forte che avevo di mio padre e delle sue temibili arrabbiature se non eseguivo come si doveva, fu la molla che mi spinse a studiare il pianoforte e non lo ringrazierò mai abbastanza per aver suscitato in me quello stato d’animo. Quello che, invece, mi veniva assolutamente naturale, era dare, sempre e comunque, corpo all’estro e all’inventiva personale.

Qualunque studio facessi, soprattutto se erano esercizi di tecnica, noiosi e ripetitivi, io cercavo di volare più in alto inventandomi qualcosa e così, mentre magari la mano sinistra era impegnata in una serie di arpeggi tratti dal “Rochner”, la mano destra vagava per conto suo, naturalmente accordandosi con la sorella, ma creando melodie non scritte da nessuna parte e, alla fine, quello studio noioso e ripetitivo si trasformava, letteralmente fra le dita, in un brano molto simile (almeno così son convinto di ricordare) a quelli che, molti anni dopo, avrebbero fatto la fortuna di pianisti come Stephen Slacks e Richard Clayderman…

Il mio vecchio, nero Klingmann verticale, un pianofortone tedesco orientale, suonava senza posa, mese dopo mese, anno dopo anno e se durante il giorno mi avvicinavo a lui con un misto di rabbia e fastidio perché dovevo studiare, la sera e la notte era tutt’altra musica, una musica segreta di cui non potevo, e non volevo, parlare con nessuno, né mio padre, che non avrebbe apprezzato, né le mie insegnanti, susseguitesi nel tempo, che non avrebbero condiviso, anzi, mi avrebbero osteggiato, perché quella non era la “Musica Classica” e qualunque altra musica, allora, veniva considerata da loro come fumo negli occhi.

Mio padre era militare di professione e mattiniero per natura e amava andare a letto dopo Carosello, per svegliarsi ogni mattina non più tardi delle cinque e mezzo, le sei, quando voleva poltrire…. La casa dove sono nato, ed in cui abitavo, era una caserma, con una parte adibita ad alloggi demaniali e mura così spesse che avresti potuto dormire in grazia di Dio senza accorgerti che nella stanza accanto stava suonando un’intera Orchestra Dixieland di trenta elementi!! Era quello il momento in cui, se l’estro mi guidava, mi chiudevo nel salone dove avevamo il pianoforte e mi mettevo a suonare le cose che volevo io, solo musica o accompagnandomi con la mia voce e pronunciando improbabili parole quasi sempre in un americano inventato che però alle mie orecchie sembrava perfetto e, comunque, molto suggestivo!

Fu dopo aver imparato da autodidatta a suonare la chitarra, verso i 12/13 anni, che cominciò ad emergere l’altra parte creativa di me, quella che sapeva non solo suonare, ma anche parlare e scrivere testi. I miei temi preferiti, sin da allora, non sono mai stati quelli politici né quelli sociali, anche se già in quegli anni (eravamo alla vigilia del ’68) in una città come Roma si respirava abbondantemente quell’atmosfera fatta di assemblee e di riunioni interminabili, di temi legati alla politica, al lavoro, alla giustizia sociale. Ma i sentimenti che soprattutto parlavano al mio cuore di artista in erba erano l’amore, l’amicizia, l’altruismo, con tutte le varianti positive e negative: la riconoscenza, la bontà, ma anche il dolore, l’ingiustizia, l’inganno, il rimorso. Imbracciando la mia chitarra (una  rossa “Zerosette”) seduto sul letto della mia stanza, componevo struggenti ballate che parlavano di amore, ma anche di onore e di tradimenti. Credo sia in queste radici che va ricercato l’humus da cui poi, così tanti anni dopo, sono nate canzoni come Un Pompiere e Jo-11 Settembre. Sono canzoni che hanno covato per un periodo lunghissimo, precedute da tante altre scritte quasi sempre sotto la spinta di sentimenti e di emozioni forti.

Bene, sono arrivato a raccontarvi, con vero piacere ed una punta di tristezza, questi ricordi e queste mie cose intime e già la commozione si sta facendo strada rapidamente, d’altronde è una strada che lei conosce molto bene quindi, beh, è meglio che la finisca qui, anche per non affaticarvi troppo!

Siete stati molto cortesi nel volermi ascoltare (si, più che leggermi, mi piace immaginare che mi stiate ascoltando…) e spero di avervi trasmesso le mie emozioni e di essere riuscito a condividere con voi sentimenti che – mi auguro – anche voi possiate provare. Credo che in molti vorremmo si realizzasse quello che definiamo “Un mondo migliore”;  solo che non tutti ci vogliono arrivare percorrendo la stessa strada.

Io vorrei che la mia fosse lastricata da semplici e buoni sentimenti, Amore, Comprensione, Amicizia,  camminando con scarpe fatte di Rispetto e fermandomi a bere, quando avrò sete, un fresco boccale di Bontà al bar della Cortesia. Mi farebbe molto piacere incontrarvi lì ed offrirvi qualcosa di fresco e di buono: che ne direste di un succo di Gentilezza corretto con  Affetto umano?

Stefano Bossa